martedì 25 dicembre 2018

Antropologia:
                                      
                        Bronisław Kaspar Malinowski

Bronisław Kaspar Malinowski è stato un antropologo polacco naturalizzato britannico.È celebre per la sua attività pionieristica nel campo della ricerca etnografica, per gli studi sulla reciprocità e per le acute analisi sugli usi e costumi delle popolazioni della Melanesia.

Malinowski è considerato il padre della moderna etnografia, di cui ha rivoluzionato la metodologia e l'approccio pratico. È stato, insieme ad Alfred Radcliffe-Brown, il maggiore esponente del funzionalismo britannico.
Questa scuola di pensiero è caratterizzata da una particolare attenzione all'analisi dei fattori che contribuiscono al mantenimento dell'equilibrio interno di una società, che appunto la teoria funzionalista concepisce come un organismo al cui funzionamento contribuiscono le sue varie parti. Questa visione del sistema sociale come una sorta di organismo vivente prevale soprattutto in Radcliffe-Brown (che la riprese dalle tesi di Émile Durkheim, il padre del funzionalismo in sociologia), il cui approccio è appunto definito antropologia sociale proprio per l'importanza centrale attribuita alla società. Diverso è l'approccio di Malinowski, il quale pur mantenendo una visione funzionalista pone al centro dei suoi studi l'individuo e non la società.

La nozione di cultura

Malinowski teorizza la sua nozione di cultura nel saggio postumo Una teoria scientifica della cultura , anche se le conclusioni erano già presenti in nuce nella sua ricerca sul campo nelle Trobriand. Egli riprende l'interpretazione tyloriana della cultura come insieme complesso, ma ne accentua l'aspetto organicistico trasformandola in un “tutto integrato” in cui ogni singola parte contribuisce al funzionamento dell'insieme. Malinowski ritiene che ogni cultura sia costituita dall'insieme di risposte che la società dà ai bisogni universali degli esseri umani. Tali bisogni sono di due tipi: alla base vi sono i bisogni umani universali (basic needs), come il mangiare, il dormire, il riprodursi e a cui ogni cultura fornisce proprie peculiari risposte; la soddisfazione dei bisogni primari crea quindi bisogni secondari o derivati come l'organizzazione politica ed economica che nascono dalla necessità di ogni società di mantenere la propria coesione interna. C'è infine un terzo tipo di bisogni, bisogni di carattere culturale, come le credenze, le tradizioni, il linguaggio. A tutti questi livelli di necessità umane, ogni cultura dà risposte coerenti alla propria natura. Su queste premesse, come ha notato James Clifford, Malinowski ha potuto basarsi sull'analisi di un singolo aspetto della cultura di un popolo per capire l'insieme complesso di cui questo aspetto è parte. L'approccio di Malinowski rende quindi possibile giungere al tutto attraverso una o più delle sue parti. La figura retorica della sineddoche è perfettamente in grado di spiegare questo approccio: la parte è concepita infatti come una “versione in scala” o come una “cifra analogica” del tutto.

L'osservazione partecipante

Prima di Malinowski, gli studiosi di antropologia svolgevano lavori sul campo esclusivamente tramite interviste strutturate, senza immergersi nella vita quotidiana dei soggetti studiati. Malinowski ha definito i dettagli dell'osservazione partecipante, enfatizzando l'importanza dei contatti quotidiani tra lo studioso e i propri informatori.
Ha così riassunto, nella sua opera Argonauti del Pacifico Occidentale, l'obiettivo della ricerca antropologica:
«afferrare il punto di vista dei soggetti osservati, nell'interezza delle loro relazioni quotidiane, per comprendere la loro visione del mondo»
In questo passaggio ha anticipato la distinzione tra descrizione e analisi e tra i punti di vista degli attori sociali e dello studioso. Distinzione che, tuttora, è alla base della metodologia d'indagine sul campo.
Al di là dei risultati ottenuti con la ricerca sul campo, e delle considerazioni metodologiche su di essa, Malinowski ha espresso idee contrastanti con alcuni capisaldi della psicanalisi freudiana, come l'universalità del complesso di Edipo. Ne La vita sessuale dei selvaggi nella Melanesia nord-occidentale , stimolato dalla lettura di Totem e tabù dello stesso Freud, dimostrò concretamente l'estraneità dei modelli di società non-occidentalizzati rispetto a tale teoria. Nella società trobiandese, infatti, il complesso di Edipo si manifesta col desiderio di unirsi alla sorella e con l'avversione per lo zio materno, a causa della differente famiglia nucleare.

Antropologi
IL CONCETTO DI CULTURA È DI FONDAMENTALE IMPORTANZA NELL’ANALISI DI QUALSIASI REALTÀ SOCIALE. LO È DIVENUTO DAL MOMENTO IN CUI L’ANTROPOLOGIA NE HA DATO UN SIGNIFICATO DIVERSO DA QUELLO CICERONIANO DI “CULTURA ANIMI.” ESSO RAPPRESENTA UN ELEMENTO PORTANTE DELLE TEORIE SORTE NELL’AMBITO DELLE SCIENZE SOCIALI . COMPRENDERE, INTERPRETARE E CONNOTARE LA RETE DI SIGNIFICATI CHE VI SOGGIACCIONO, RETE IN CUI L’UOMO È IMPIGLIATO, MA DELLA QUALE È EGLI STESSO ARTEFICE (GEERTZ, 1997), PRESUPPONE L’ASSUNZIONE DI ALCUNI PARAMETRI INTERPRETATIVI.
IN OGNI LINGUA CULTURA È SIA UNA PAROLA USATA NEL LESSICO QUOTIDIANO, SIA UN TERMINE SCIENTIFICO SPECIFICO DELLE SCIENZE ANTROPOLOGICHE. VI È INOLTRE, UN ULTERIORE PROBLEMA TERMINOLOGICO, POSTO DALL’USO DEL TERMINE CIVILTÀ CHE SPESSO VIENE USATO COME SINONIMO DI CULTURA. UN MODELLO DI OSSERVAZIONE E DI VALUTAZIONE DELLA COMPETENZA CULTURALE NON PUÒ DUNQUE PRESCINDERE DA UNA DISAMINA DEGLI ASPETTI DENOTATIVI E CONNOTATIVI SOGGIACENTI AI TERMINI IN OGGETTO


Franz Boas
(Minden9 luglio 1858 – New York21 dicembre 1942) è stato un antropologo tedesco naturalizzato statunitense , tra i pionieri dell'antropologia moderna.
Nella sua opera Limiti del metodo comparativo in antropologia , Boas smantella il paradigma dell'evoluzione unilineare proposta da Tylor. Boas ritiene che non sia assolutamente provata la tesi secondo cui ogni popolo, attualmente presente in uno stadio progredito della civiltà, sia passato attraverso una serie di stadi di sviluppo identici per tutti e che possono essere desunti dall'analisi di tutti i tipi di cultura esistenti al mondo. Boas afferma con convinzione che la sequenza dal semplice al complesso non è valida per tutti i fenomeni culturali: non lo è ad esempio per la lingua, o per l'arte, o per la religione. A dimostrazione di ciò, Boas fa riferimento ai numerosi studi da lui effettuati sui linguaggi dei nativi del Nord-America e nota come «molte lingue primitive sono complesse», perché le loro strutture grammaticali e le loro forme logiche sono molto più elaborate di quelle occidentali: «Le categorie grammaticali del latino, e ancor di più quelle dell'inglese moderno, appaiono rozze se paragonate con la complessità delle forme logiche che le lingue primitive conoscono». Riguardo alla tesi dell'unità psichica del genere umano, Boas la smonta attraverso la sua impostazione storicistica: la presenza di fenomeni simili in contesti culturali distanti può essere spiegata attraverso una connessione storica tra tali fenomeni. È probabile che questi fenomeni fossero acquisizioni culturali primitive risalenti a un periodo antecedente alla dispersione dell'umanità, o che si siano prodotte per contatti culturali diretti. Notando inoltre con che frequenza forme analoghe si sviluppino indipendentemente in piante e animali, Boas afferma che «non c'è nulla di improbabile nell'origine indipendente di idee simili tra i gruppi umani più differenti». Uno dei meriti principali di Boas è stato l'avere confutato il pregiudizio razzista. Nel suo La mente dell'uomo primitivo, Boas dimostrò come non vi sia alcuna influenza sulla cultura da parte dei caratteri biologici ed esplicò la sua tesi già presente in tutti i suoi studi secondo cui le differenze tra gruppi umani sono dovute solo alla cultura e ai diversi percorsi storici e non alla rzza . Boas è stato anche il primo a introdurre il concetto di relativismo culturale che è del resto l'inevitabile approdo del particolarismo storico. Questa tesi si fonda sull'assunto secondo cui ogni cultura ha una sua unicità che la rende incomprensibile e impossibile da valutare a tutti coloro che non la studiano dal suo interno. Nato come correttivo dell' etnocentrismo , concetto che designa la tendenza a interpretare e giudicare le culture “altre” in base ai propri criteri, il relativismo culturale è poi divenuto per gli antropologi un ostacolo riguardo a questioni etiche ed epistemologiche che si verranno a presentare più avanti.

Il concetto di cultura

Ne La mente dell'uomo primitivo (1911), Boas elaborò una propria definizione di cultura. Essa è definita come «la totalità delle reazioni e delle attività intellettuali e fisiche che caratterizzano il comportamento degli individui che compongono un gruppo sociale – considerati sia collettivamente sia singolarmente – in relazione al loro ambiente naturale, ad altri gruppi, ai membri del gruppo stesso, nonché quello di ogni individuo rispetto a se stesso». La cultura, continua Boas, «comprende anche i prodotti di queste attività» e soprattutto «i suoi elementi non sono indipendenti ma possiedono una struttura». Riguardo a questa definizione, possono essere fatte alcune riflessioni. Innanzitutto, nonostante le sue varie critiche a Tylor, la sua definizione di cultura riprende da Tylor l'idea di totalità visto che anche per Boas la cultura è un insieme di elementi che non sono indipendenti ma che possiedono una struttura: ritorna quindi il concetto di insieme complesso. Diversamente da Tylor, tuttavia, Boas fa qui una distinzione tra due diversi aspetti della cultura: da una parte le reazioni e le attività comportamentali, dall'altra i prodotti di questa attività, cioè quella che potremmo definire la cultura materiale. Ciò che tuttavia spicca in questa definizione è la centralità riservata all'individuo: mentre nella definizione di Tylor l'individuo, inteso come “membro della società”, è un elemento passivo perché mero “portatore” della cultura, Boas assume l'individuo nella qualità di soggetto capace di “attività” e “reazioni”.

Lingua, cultura, individuo

Nel 1889 scrive Sull'alternanza dei suoni ("On Alternating Sounds"), articolo su American Anthropologist, che influenzò la metodologia sia della linguistica sia dell'antropologia culturale, riguardo alla percezione di suoni diversi. Boas inizia sollevando una questione empirica: quando le persone descrivono un suono in modi diversi, è perché non riescono a percepire la differenza, o potrebbe esserci un altro motivo? Egli stabilisce subito che egli non si occupa di casi di deficit percettivo - l'equivalente sonoro di daltonismo. Egli fa notare che la questione di persone che descrivono un suono in modi diversi è paragonabile a quella di persone che descrivono suoni differenti allo stesso modo. Questo è fondamentale per la ricerca in linguistica descrittiva: quando si studia una nuova lingua, come possiamo notare la pronuncia delle parole diverse? (in questo punto, Boas anticipa e pone le basi per la distinzione tra fonemi e fonetica). La gente può pronunciare una parola in una varietà di modi e ancora riconoscere che stanno usando la stessa parola. Il problema, allora, non è "che tali sensazioni non sono riconosciute nella loro individualità" (in altre parole, la gente riconosce le differenze di pronuncia), ma piuttosto, è che i suoni "sono classificati in base alla loro somiglianza" (in altre parole, che le persone classificano una varietà di suoni percepiti in un'unica categoria). Boas applicò questi principi per i suoi studi di lingue lingua inuit. I ricercatori hanno riportato una varietà di pronunce per una parola data. In passato, i ricercatori hanno interpretato questi dati in un certo numero di modi - potrebbe indicare variazioni locali nella pronuncia di una parola, o potrebbe indicare dialetti diversi. Boas sostiene una spiegazione alternativa: che la differenza non è nel modo in cui gli Inuit pronunciano la parola, ma piuttosto nel modo in cui gli studiosi di lingua inglese percepiscono la pronuncia della parola. Non è che gli anglofoni sono fisicamente incapaci di percepire il suono in questione, ma piuttosto che il sistema fonetico della lingua inglese non può accogliere la sensazione sonora percepita.
Nel suo fondamentale Handbook of American Indian Languages  in quattro volumi, Boas fornì una documentazione unica sulla grammatica delle lingue dei nativi nord-americani, molte delle quali oggi scomparse. La sua introduzione a quest'opera è stata considerata da molti esperti come uno dei testi più importanti della linguistica descrittiva e antropologica. Boas ritiene che vi sia un collegamento tra lingua e cultura, ed anzi la conoscenza della lingua viene ritenuta indispensabile per la conoscenza di una cultura. Queste riflessioni derivano dalla stessa personale esperienza di Boas. Egli studiò numerose questioni, quali il legame tra lingua e razza, l'influenza dell'ambiente sulla lingua, i rapporti tra linguaggio e pensiero. Nella sua più tarda opera General Anthropology , egli sosterrà la tesi secondo cui le categorie grammaticali di una lingua impongono a chi le usa delle scelte obbligate allo stesso modo in cui i soggetti sociali sono condizionati dalle regole della propria cultura. Boas non approfondì sistematicamente questo rapporto tra lingua e cultura, che fu invece ripreso da uno dei suoi allievi, Edward Sapir che, insieme al linguista Benjamin Lee Whorf, è rimasto noto per la cosiddetta ipotesi di Sapir-Whorf.

Costruttivismo

  Vygotskij e Piaget:


Maggior esponente di quella che viene comunemente chiamata scuola socio-culturale, sviluppatasi in Unione Sovietica durante la prima parte del novecento, Lev Vygotskij (1896 – 1934) sistematizzò per primo i concetti e i metodi della teoria socio-culturale nella sua opera Studi sulla storia del comportamento del 1930. In questa opera vengono posti a confronto le funzioni psichiche e il comportamento di primati, bambini ed esseri umani adulti, tracciando pertanto confronti sia dal punto di vista filogenetico (rapporto animale – uomo) che ontogenetico (bambino – uomo).
Per lo psicologo russo i processi fisiologici quali i riflessi condizionati sono comuni agli animali e agli esseri umani, ma con una distinzione fondamentale: per gli animali i riflessi condizionati e fisiologici sono le unità fondamentali di comportamento, per gli esseri umani invece rappresentano solo i processi elementari e punti di partenza del processo di apprendimento e comportamento.
Il salto che passa tra esseri umani e animali è rappresentato dalle modalità di interazione con l’ambiente: gli esseri umani infatti si avvalgono in modo caratteristico di strumenti, siano essi utensili o simboli linguistici. L’acquisizione e la capacità d’uso di tali strumenti avviene inevitabilmente grazie all’interazione con l’ambiente e il contesto sociale in cui il bambino viene a contatto durante lo sviluppo ontogenetico, in primis pertanto i genitori. In seguito ad una fase transitoria di interazione, il bambino adotta gli stessi strumenti e simboli da se stesso, senza più la necessità di alcuno stimolo esterno, dimostrando pertanto la piena acquisizione e padronanza dello strumento.

Pensiero e linguaggio

L’interazione fra il pensiero e lo strumento linguaggio vengono approfondite nell’opera postuma di Vygotskij Pensiero e Linguaggio del 1934, opera che rappresenta il riferimento di confronto con le teorie dell’apprendimento di Piaget (Vygotskij, 2001). Pensiero e linguaggio hanno infatti per lo psicologo russo due origini genetiche differenti e vanno ad interagire solo intorno ai due anni. A questo punto il linguaggio diventa strumento di comunicazione attraverso cui si manifesta il proprio pensiero alle altre persone, e strumento di regolazione del proprio comportamento a seguito di strategie e regole.

Interazione con il contesto sociale

L’importanza dell’interazione con il contesto sociale è racchiusa nel concetto chiave di interiorizzazione, che segna il passaggio dal linguaggio come strumento comunicativo (acquisito intorno all’età di un anno e mezzo) a strumento di regolazione (dai quattro ai sette anni): in un primo stadio infatti il linguaggio è espresso a voce alta per comunicare con gli adulti; poi si assiste a una fase intermedia in cui la funzione regolativa del linguaggio viene manifestata ad alta voce dal bambino (linguaggio egocentrico), molto spesso in attività che richiedono la risoluzione di problemi. Infine, intorno ai sette anni, il bambino acquisisce pienamente la funzione regolativa del linguaggio senza più manifestarla a voce alta (linguaggio endofasico).
Il linguaggio rappresenta l’esempio paradigmatico dell’acquisizione di funzioni intellettive da parte dell’individuo umano: ogni funzione psichica superiore appare due volte nello sviluppo del bambino, dapprima sul piano interpsicologico e sociale, e in un secondo tempo sul piano intrapsicologico. L’interazione con l’ambiente sociale è dunque decisiva per lo sviluppo e l’interiorizzazione di tali funzioni cognitive e psichiche, soprattutto in relazione al concetto di zona di sviluppo prossimale proposta dallo psicologo russo, ovvero quell’area cognitiva di supporto esperto fornita dall’adulto nella quale il bambino può spingersi oltre il suo livello di conoscenza attuale.
Proprio sul ruolo svolto dal linguaggio egocentrico si sviluppa quella che molti studiosi hanno definito come la polemica Vygotskij-Piaget.


Il linguaggio egocentrico per Piaget


Jean Piaget (1896-1980), ricercatore svizzero padre dell’epistemologia genetica e della scuola di Ginevra, venne a conoscenza delle critiche dello psicologo russo negli anni ’50 e poté pertanto solo scrivere una replica postuma.
Vygotskij nella sua critica ricorda che lo studioso svizzero, in Il linguaggio e il pensiero del fanciullo del 1923, affermava che “il linguaggio egocentrico del bambino risulta essere la manifestazione immediata dell’egocentrismo, il quale è, a sua volta, un compromesso tra l’autismo iniziale e la progressiva socializzazione del pensiero infantile” (Piaget, 1976), mentre Vygotskij manifesta una considerazione del tutto opposta: “il linguaggio del bambino rappresenta uno dei fenomeni di transizione dalle funzioni interpsichiche a quelle intrapsichiche, cioè un passaggio da forme di attività sociale a forme di
attività interamente individuale” (Vygotskij, 2001). Per lo psicologo russo il linguaggio è pertanto una funzione psichica complessa che si sviluppa nel bambino grazie all’interazione sociale, una funzione interpsichica in quanto consente di rapportarsi con le altre persone. Successivamente, come descritto in precedenza, diviene una funzione intrapsichica che permette di regolare dall’interno i propri processi cognitivi e il proprio comportamento.
Per Piaget il ruolo del linguaggio egocentrico è completamente opposto: da funzione interna del bambino, il linguaggio diviene gradualmente una funzione socializzata. In tale ottica il linguaggio egocentrico rappresenta il passaggio intermedio attraverso cui la funzione linguistica si manifesta gradualmente e viene esteriorizzata definitivamente nel linguaggio socializzato.

Basi dell’attività psichica

L’interazione dell’individuo con l’ambiente sociale resta comunque, per entrambi gli autori, di fondamentale importanza per lo sviluppo di funzioni psichiche e cognitive complesse, fra le quali il linguaggio stesso; nella teoria della scuola psico-sociale in particolare le strutture sono innate, ma la loro concreta manifestazione è evidentemente determinata dall’ambiente sociale e culturale entro cui l’individuo nasce, cresce e si sviluppa. Quanto appreso in tale ambiente viene progressivamente interiorizzato e va a costituire l’insieme di regole, strategie, strutture e contenuti che stanno alla base di qualsiasi attività psichica.

Il ruolo della cultura

Sulla scia degli studi di Vygotskij e soprattutto di Piaget va sicuramente ricordata l’opera dello psicologo statunitense Jerome Bruner (nato nel 1915), il quale, partendo dalle teorie dei due studiosi, sviluppa un pensiero in cui la cultura gioca un ruolo di fondamentale importanza nello sviluppo dell’individuo (non per niente la sua teoria viene definita culturalismo). Per Bruner qualsiasi atto di conoscenza nasce dalla mente che crea la cultura, ma allo stesso tempo la cultura in cui sono espresse le conoscenze stesse crea a sua volta la mente. L’uomo si preoccupa infatti non solo di come insegnare ma anche di quali contenuti e conoscenze insegnare, e la decisione sul cosa insegnare deriva ed è influenzata dalla cultura di appartenenza.
Altro aspetto fondamentale, di derivazione prettamente piagetana, è la convinzione che il discente durante l’atto di conoscere deve svolgere un ruolo attivo, e deve essere reso consapevole delle motivazioni e delle modalità educative che lo riguardano.
Da un punto di vista ontologico, l’apprendimento del bambino è suddiviso dallo psicologo americano in quattro fasi:
1. la capacità di azione;
2. la riflessione;
3. la condivisione;
4. la cultura.
La cultura viene vista pertanto come un’interpretazione condivisa e collettiva della realtà e, d’altra parte, la mente è considerata un organo intersoggettivo che si sviluppa mediante la relazione con altri individui.



SOCIOLOGIA: 
                                  DURKHEIM:


Le regole del metodo sociologico
La stesura dello scritto Della divisione del lavoro sociale del 1893 indusse Durkheim a misurarsi con le categorie da lui impiegate in quello scritto: in particolare, a domandarsi quali fossero e come funzionassero, in concreto, le “regole del metodo sociologico”. Non tutto è “sociale” in una società: e il fatto sociale – ossia “l’integrazione degli individui in una comunità morale di significazione” - è poi  irriducibile ai fatti psicologici e biologici. Si tratta di un fatto collettivo, obiettivo, non soggettivo né mentale, e rispondente a “leggi sociali” autonome dalla   psicologia e dalla biologia. 

Della divisione del lavoro sociale 
In Della divisione del lavoro sociale, Durkheim si domanda come mai l’individuo diventa sempre più autonomo e al tempo stesso viene sempre più a dipendere dal resto della società. Infatti, lo sviluppo dell’individuo che caratterizza la modernità non è accompagnato da un indebolimento dei legami sociali, ma piuttosto da un cambiamento di questi ultimi. Le società premoderne (prive della divisione del lavoro) non conoscono spazi per le differenze e per le individualità, le unità sociali stanno insieme perché sono tutte simili e ugualmente sottoposte all’unità di grado superiore di cui fanno parte (l’individuo alla famiglia, la famiglia al clan, il clan alla tribù). È una solidarietà meramente “meccanica”, come quella delle molecole di un corpo inorganico: e che sia una solidarietà meccanica appare evidente non appena si considerino i sistemi giuridici che vigono all’interno delle società premoderne, che sono tutti sistemi che adottano sanzioni repressive contro chi viola le leggi. Al contrario, nelle società moderne, in cui fortissima è la divisione del lavoro, ogni individuo e ogni gruppo svolge funzioni diverse: la solidarietà non si fonda più sull’uguaglianza ma sulla differenza; gli individui e i gruppi stanno infatti insieme perché nessuno è autosufficiente e tutti dipendono da altri. E gli stessi sistemi giuridici mirano non a reprimere, bensì a ristabilire l’equilibrio infranto da chi ha violato le norme (sono cioè sanzioni restitutive). Questo tipo di solidarietà è detta “organica” da Durkheim. Interrogandosi sui fondamenti del  consenso sociale che stabilizzano le società, Durkheim intende dimostrare che l’anomia crescente nelle società moderne industriali non è una mera fatalità ma è da mettere in stretta connessione con l'instaurazione, modifica e sviluppo di una morale corrente, di un sistema di valori condiviso e con la loro degenerazione. A tale scopo Durkheim studia i tipi principali di stratificazione sociale in funzione del loro modo di determinare la coesione sociale. Fondamentale è a tal proposito la nozione di solidarietà, ovvero la coscienza sempre più interiorizzata che gli individui hanno di convivere in società e di sposarne i valori fondativi-aggregativi.  Secondo Durkheim, con una legge di complessità strutturale crescente, sotto l’influenza del fattore demografico, le società passano dalla prevalenza della solidarietà “meccanica” a quella della solidarietà “organica”. Ma l’aumento in volume e in densità della popolazione ha realmente un effetto soltanto in virtù della densità “morale” o “dinamica” (numero e frequenza degli scambi sociali), la cui crescita causa a sua volta l’evoluzione dei quadri sociali. La solidarietà meccanica è caratterizzata dalla giustapposizione di segmenti sociali equivalenti (ordini, clan), e l’accettazione da parte dei singoli dei presupposti della coesione collettiva tramite funzioni repressive. In questo stadio gli individui vengono colti per somiglianza e la personalità individuale è assorbita in quella collettiva.  In quest’ambito  prevale un diritto di tipo prescrittivo (o penale). Il vincolo di solidarietà sociale al quale corrisponde il diritto repressivo è quello la cui rottura costituisce il reato; chiamiamo così ogni atto che, in qualche grado, determina contro il suo autore la reazione caratteristica denominata pena. La solidarietà organica si manifesta attraverso la differenziazione di funzioni specializzate (altrimenti detta divisione del lavoro) che implica  la cooperazione cosciente e libera degli agenti sociali, quindi lo sviluppo della contrattualizzazione delle relazioni sociali e la nascita dello Stato moderno democratico, centralizzato, gestionale, e la conseguente  concezione dell’individuo come persona. In quest’ambito prevale  l’adozione di  un diritto di tipo restituivo (o privato). Più specificamente per diritto restituivo Durkheim intende un sistema definito che comprende il diritto domestico, il diritto contrattuale, il diritto commerciale, il diritto delle procedure, il diritto amministrativo e costituzionale. Le relazioni regolate da tali diritti sono completamente diverse dalle precedenti: esse esprimono un concorso positivo, una cooperazione che deriva essenzialmente dalla divisione del lavoro. Durkheim riconosce alla divisione del lavoro soprattutto un carattere morale. Infatti  in virtù di essa l'individuo ridiventa consapevole del suo stato di dipendenza nei confronti della società e del fatto che da questa provengono le forze che lo trattengono e lo frenano. In una parola, diventando la fonte eminente della solidarietà sociale, la divisione del lavoro diventa anche la base dell'ordine morale.  

Il suicidio 
Oggettivando le “tendenze collettive” al suicidio, Durkheim costituisce in fatto sociale un fenomeno propriamente individuale: il tasso sociale di suicidio (numero di suicidi rapportato al  totale di una popolazione in un periodo dato) ci dice molto di più dello “stato morale” di una società, per  la sua costanza e specificità, che il tasso di mortalità generale,  a un di presso  identico in società di uguale livello di civilizzazione. Inizialmente, Durkheim elimina dall’esame di questo fatto sociale i fattori extrasociali: le  psicopatie, la razza, le eredità psicobiologiche, i fattori geografici e climatici, l’imitazione. Successivamente, propone un’analisi a più livelli proponendo di studiare le “variazioni concomitanti” di “serie ordinate” di fenomeni, e mostrare che le cifre del suicidio dipendono dagli ambienti sociali (familiari, confessionali, politici, professionali). Così, per determinare se la crescita del tasso di suicidio derivi o no da quella del grado d’istruzione, egli introduce una variabile intermedia, la religione (non il dogma religioso ma la religione in quanto fatto sociale, orditrice di  legami comunitari): l’indebolimento delle comunità confessionali “rafforza ad un tempo il bisogno di sapere e l’inclinazione al suicidio”, poiché l’individuo separato dalla comunità esperisce tutta l’ebbrezza individuale della scoperta del  pensiero, ma al contempo, la perdita del quadro di riferimento normativo (anomia)  e il conforto della comunità, rende oltremodo rischiosa la sua posizione. Durkheim determina tre tipi principali di suicidio. Due riguardano le società moderne: il suicidio anomico, fortemente connesso alle crisi da esse attraversate, quando si crea cioè disordine (anomia); e a tal proposito Durkheim argomenterà che il numero di suicidi aumenta sia in periodi di recessione economica sia di impetuoso sviluppo; il suicidio egoista, ancora tipico delle società moderne e dovuto all’allentarsi dei legami comunitari. Il suicidio altruistico tipico delle società a solidarietà meccanica, in cui l’individuo si sacrifica per rinsaldare il gruppo di appartenenza (oggi noi potremmo esplicitamente ascrivere in questa categoria il suicidio dei kamikaze).  

Le forme elementari della vita religiosa
Durkheim vede nella religione il fenomeno sociale fondamentale dal quale derivano tutti gli altri. 
La dialettica del sacro e del profano costituisce il centro del fatto sociale (nella religione, è la società che adora se stessa) ed è speculare a quella intercorrente tra individuo e società. Tale dialettica producendo i principi di classificazione dell’universo, le categorie di tempo, di spazio, di forza, ecc., è all’origine dell’esigenza di logica, di razionalità e di universalità della scienza moderna. Durkheim prosegue nelle Forme elementari della vita religiosa il progetto (avanzato ne La divisione del lavoro sociale) di fare la storia delle forme sociali della presa di coscienza del reale, di tentare una teoria generale dell’attività simbolica: l’elaborazione di una sociologia della conoscenza, alla quale partecipò Marcel Mauss. Così, lingua, segni, simboli, per una parte fatti sociali, acquistano significato soltanto in funzione di un contesto sociale e storico dato e della loro posizione in un insieme di relazioni.

PEDAGOGIA:
                                  LE UNIVERSITAS 



L'università, nel Medioevo europeo, nasce sia come universitas, ovvero come collettività solidale di maestri e allievi, sia come universitas studiorum, ovvero come un insieme organico di discipline di studio, tutte aventi come culmine gli studi di teologia.
Nel periodo compreso tra i secoli XI e XII, maestri e studiosi, muniti del titolo abilitante di “libertas ubique docendi”, si spostano fra le città del Continente e, soprattutto, convergono verso le Città nelle quali vi sono i più rinomati studia: Salerno per la Medicina, Bologna per il Diritto e Parigi per la Teologia. Tale inedita situazione di circolazione di intellettuali e di idee, assieme al singolare status di protezione che il Papa e i Re garantivano alle universitates, ovvero come già detto alle comunità, di docenti e studenti, produsse un fermento intellettuale mai prima registrato in Europa.
Tale fermento intellettuale poggiava su una concezione teologica dell'esistenza, sistematizzata proprio nell'Università di Parigi da insigni studiosi e maestri come Alberto Magno (1206-1280) e il suo discepolo Tommaso d'Aquino (1225-1274). In base a tale concezione teologica, l'uomo deve sforzarsi, con il suo intelletto creato a immagine e somiglianza di quello divino, di comprendere la ratio che Dio ha utilizzato nell'opera creatrice. Questo impegno nella comprensione del piano divino rappresenta la sostanza degli studi universitari nell'Europa medievale. Non solo. Anche il mondo islamico, grazie al quale, tramite la mediazione degli studiosi del Califfato di Cordova, proprio Tommaso aveva recepito numerosi testi aristotelici, aveva una concezione molto simile (D'Ancona, 2005). Tale sfondo intellettuale, insomma, aveva consentito un'ampia circolazione di saperi e conoscenze nell'ambito dell'intero spazio del Mediterraneo.
Non è un caso, a tal proposito, che alcune delle più importanti e prestigiose Facoltà, come quella di Medicina di Salerno e quella di Diritto di Bologna, siano sorte a partire dal principio religioso di tutela delle basilari esigenze di salute personale e sociale dei soggetti.
Non è un caso, ancora, che le Istituzioni promotrici delle Università si preoccupassero del fatto che sia i docenti sia gli studenti non avessero difficoltà in merito al vitto, all'alloggio e alla gratuità nell'accesso alle risorse bibliotecarie indispensabili allo svolgimento delle attività di studio.



Le universitates, insomma, erano organizzate alla maniera di cittadelle del sapere. Al loro interno, docenti e studenti coltivavano i propri studi in un ambiente che favoriva lo scambio di idee e la condivisione dell'esistenza in uno spirito di amicizia e convivialità. Ciò non significa che le cittadelle del sapere somigliassero a delle res publicae ideali. Soltanto, è bene sottolineare come i saperi fossero coltivati nell'ambito di relazioni formative a partire dalle quali gli allievi crescevano all'ombra dei maestri. Al di fuori di tali relazioni, non sarebbe possibile comprendere appieno la stessa natura di tali istituzioni.
È vero, infatti, che la compagnia dei maestri e degli allievi doveva essere funzionale alla comune ricerca, mediante l'utilizzo delle facoltà dell'intelletto, di quella verità che la fede religiosa dava sì, per certa, ma di cui offriva, nei testi sacri, solo sintetiche spiegazioni razionali. Ecco perché tali spiegazioni necessitavano di essere approfondite ed indagate in una sede degna. Ma, sebbene gli studi costituivano la ragion d’essere delle università, era pur sempre la compagnia, in quanto sodalizio umano e intellettuale, che accomunava maestri e allievi nell’applicazione, sebbene con diversi gradi di competenza, a tali studi. Così Leo Moulin:

domenica 9 dicembre 2018

Teoria di Bruner dello sviluppo cognitivo


}Come Piaget, Bruner ritiene che i bambini hanno una capacità innata che li aiuta a rendere il senso del lavoro di sviluppo e che le abilità cognitive si sviluppano attraverso l'interazione attiva.}A differenza di Piaget, Bruner sosteneva che fattori sociali, particolarmente il linguaggio, erano importanti per la crescita cognitiva. Questi sostengono il concetto di ‘scaffolding’.}Bruner guardò anche come la conoscenza è rappresentata e organizzata attraverso diverse modalità di rappresentazione.


Jerome Bruner  è uno dei più importanti e noti psicologi contemporanei , con la sua attività di ricerca ha contributo agli sviluppi della psicologia dell’educazione e della didattica. Nato a New York il 1° ottobre 1915,  ha conseguito il B.A. alla Duke University (1937), ed il dottorato alla Harvard University (1941) dove è stato professore di psicologia e dal 1960 al 1972 ha diretto il Center of Cognitive Studies. Dal 1972 al 1980 ha insegnato psicologia sperimentale alla Oxford University ed è attualmente professore alla New York University e professore emerito presso la New York University School of Law. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti e lauree honoris causa in università di tutto il mondo.
La sua ricerca muove dagli studi giovanili sul funzionalismo percettivo al cognitivismo degli anni ’60 fino ai più recenti interessi in ambito costruttivistico ed ermeneutico. Grande influenza hanno esercitato su di lui Piaget e Vigotskij, quest’ultimo specialmente per il concetto di cultura e il suo carattere protesico, per il concetto di zona di sviluppo prossimale e per il ruolo del linguaggio nello sviluppo del pensiero.
I primi studi di Bruner vennero condotti sulle conseguenze del dopoguerra nella psicologia sociale e successivamente sul processo percettivo e sull’influenza dei fattori sociali.
In opposizione ai comportamentisti, diede inizio ad un nuovo indirizzo di ricerche chiamato “New look on perception” che sosteneva, tra l’altro, la continuità tra l’attività percettiva e quella concettuale, studi che lo portarono ad apprezzare le idee di Maria Montessori sul valore del materiale strutturato per lo sviluppo logico.
Nel 1959,  un anno decisivo per i problemi educativi, pedagogici e scolastici, Bruner fu chiamato a coordinare un gruppo di studiosi alla Conferenza sull’Educazione di Woods Hole dove si progettarono nuove teorie dell’istruzione e modalità per migliorare i programmi scolastici e i metodi didattici statunitensi. I risultati di tali studi vennero raccolti nel volume “The process of Education” (1960).
Negli anni ’60 gli studi di Bruner sui processi di insegnamento-apprendimento, sui programmi e i curricoli scolastici, sui modi e gli strumenti dell’insegnamento ebbero una notevole diffusione in tutto il mondo e furono punto di riferimento per la revisione dei programmi di studio e dei metodi di insegnamento. Tali studi vennero raccolti nei volumi “Toward a Theory of Instruction” (1966),  “On Knowing. Essays for the Left Hand” (1962), “Studies in Cognitive Growth” (1966).
Nell’analisi dei processi di apprendimento Bruner è partito dalle ricerche di Piaget per poi svilupparle sottolineando l’influenza dei fattori socio-culturali rispetto a quelli genetici. Per lui una teoria dell’istruzione doveva indicare le esperienze più efficaci per promuovere l’apprendimento e  specificare inoltre come va strutturato un complesso di conoscenze affinché sia effettivamente compreso dal discente. Le discipline vengono infatti concepite da Bruner come un insieme organizzato e coerente di conoscenze e non come semplice insieme di nozioni. In questa prima fase di studi connessi ad una visione cognitivista, propone quindi, tra l’altro, i concetti di struttura e di curriculum a spirale. Essendo possibile evidenziare le operazioni mentali funzionali alla crescita intellettuale (categorizzazione, concettualizzazione, messa in atto di strategie per la soluzione di problemi, ricerca di significato) ed essendo ogni corpus disciplinare caratterizzato da una struttura profonda (proposizioni generative e principi organizzativi) è sul piano di tali strutture logiche e psicologiche che deve avvenire l’incontro tra discente e scienza, e non sui contenuti specifici delle discipline. Il movimento a spirale che parte da un approccio intuitivo alla conoscenza per proseguire con ciclici approfondimenti e successivi ritorni e iterazioni, permette di comprendere le idee di base connesse alle varie discipline e permette di insegnare qualsiasi problematica a chiunque in ogni età, purché si adegui il materiale da insegnare alla modalità di rappresentazione della realtà di chi apprende. Questo significa che le stesse strutture di contenuto debbono essere mediate da processi pedagogici di tipo operativo, visivo e simbolico. Ciò permetterà di definire tre modalità di rappresentazione: attiva, iconica e simbolica.
Gli studi di Bruner considerarono in seguito l’impatto della povertà, del razzismo e dell’emarginazione sulla vita mentale e sullo sviluppo dei bambini, e si orientarono quindi sull’influenza della cultura sul modo in cui i bambini apprendono. In particolare il linguaggio verbale, prodotto culturale per eccellenza, è strettamente connesso allo sviluppo intellettuale, contraddistingue e addirittura “marca”  lo sviluppo del bambino secondo la cultura di cui è espressione (“Children’s Talk: Learning to Use Language”, 1983).
Con tali studi Bruner prospetta una nuova idea della mente e del suo sviluppo in quanto è nella vita sociale e culturale delle persone e nei loro tentativi di costruire percezioni e resoconti dell’esperienza socialmente condivisibili che sono da ricercarsi le proprietà distintive della vita psichica.
La cultura, col suo carattere protesico, è fondamentale perché permette di trasmettere ed ampliare la conoscenza tra le diverse generazioni attraverso numerosi dispositivi, amplificatori della capacità motoria, comunicativa e cognitiva.
Negli anni ’80 e ’90 Bruner è diventato quindi fautore di una concezione costruttivistico-culturalista anche grazie alle influenze del mondo dell’epistmologia, in particolare di Goodman, e delle riletture di Vigotskij.
Nella svolta culturalista si evidenziano come elementi fondamentali l’intenzionalità e l’intersoggettività per la negoziazione del significato nei diversi ambiti di vita. Il lavoro di Bruner approfondisce infatti gli aspetti della memoria autobiografica e del pensiero narrativo. Secondo lo studioso esistono due tipi di pensiero, quello paradigmatico, tipico della verità scientifica e quello narrativo, basato sul criterio della verosimiglianza e che presenta le caratteristiche del racconto, tramite il quale è possibile ricondurre a unitarietà e dare senso alle vicende personali . È grazie ai racconti messi a disposizione dalla cultura che si apprende e si arricchisce l’esperienza. La narrazione è quindi la modalità conoscitiva per eccellenza perché non è solo ricostruzione a posteriori dell’esperienza ma fornisce a questa il suo tessuto, ovvero i format e gli schemi dell’esperienza stessa ed è quindi fondamentale per l’atto della costruzione di significato. I risultati di queste ricerche sono raccolti nei volumi “Actual Minds, Possible Worlds” (1986), “Acts of meaning” (1990), “The culture of education” (1996).
Dalla fine degli anni ’90 Bruner si occupa di ricerche inerenti la narrazione e il diritto segnalando come il tessuto culturale cambi anche in relazione ai modi di raccontare i casi giudiziari. La letteratura e la diversa sensibilità narrativa che produce, influenzano sia il modo di raccontare i casi giudiziari da parte degli avvocati sia il modo in cui questi vengono inquadrati in categorie giuridiche da parte dei giudici (“Making stories: Law, literature, life” 2002).


domenica 18 novembre 2018

UMANISTI ITALIANI ED EUROPEI-pedagogia 





Le convinzioni su cui si fondava la cultura umanistica e che rinnovavano il modo di intendere l’uomo e il mondo, promuovevano un’idea di natura che da un lato valorizza il modo empirico e dall’altro spingeva a praticare le arti occulte, concepite come strumenti d’indagine della realtà nelle sue componenti immateriali. La cultura medievale aveva come base la difesa della tradizione, in particolare religiosa, quella umanistica era invece aperta alla ricerca della verità ad ogni costo. Anche in politica prende piede il “realismo” che sgancia il governo dalla riflessione filosofica e toglie l’autorità di conferire il potere da Dio al Principe, considerato come colui in grado di conquistarlo e mantenerlo ad ogni costo.
In conformità a tali condizioni mutava completamente il modo di concepire l’educazione dei giovani e la funzione sociale dell’istruzione, e l’organizzazione didattica della scuola, stava nascendo la moderna concezione di pedagogia, istruzione e scuola. In passato, infatti, più che di educazione era corretto parlare di “agire educativo” poiché non vi era codificazione del sapere quanto piuttosto del fare acquisire ideali e consuetudini per formare il “buon cristiano” come in Agostino e il “cittadino” per Platone.

Nella scuola vi furono grandi cambiamenti che portarono la diffusione della stessa, prima nei ceti agiati e poi a mano a mano interessarono fasce sempre più ampie della popolazione. Fra i secoli XIII e XIV nacquero le prime università a Parigi, Bologna e Padova, aumentò il numero di scuole e i comuni cominciarono a trasferirne il controllo dal clero ai laici, seppur mantenendo le stesse prassi educative. Vi fu quella che lo storico inglese Lawrence Stone definì come “rivoluzione educativa”. I fattori che portarono a questa furono alcuni di carattere culturale e politico, altri dovuti a scoperte tecnologiche.

L’umanesimo educativo
Il primo fattore è determinato dal sorgere delle prime realizzazioni educative dell’Umanesimo, inizialmente in Italia, con Leon Battista Alberti, Guarino Guarini, Vittorino da Feltre, e in Europa con Erasmo da Rotterdam, Tommaso Moro, Lutero. L’educazione umanistica incentrata sugli studia humanitatis, comprendeva lo studio delle lingue e letterature antiche ed erano considerate un sussidio indispensabile per formare un uomo nel quale il sapere e la capacità di stare armonicamente nel proprio ambiente sociale erano aspetti della stessa realtà armonica.  A essi si abbinava, grazie al contatto con il nord dell’Europa, un cristianesimo libero da corruzioni e superstizioni.
Si passo da un sistema incentrato sulle grandi università attorno alle quali orbitavano scuole in un complesso scoordinato a uno fondato su collegi con internato. A ciò contribuirono i convitti umanistico-rinascimentali gestiti dai Gesuiti e da alcuni intellettuali che accoglievano giovani allievi di cui si prendevano cura. Una prima esperienza fu quella del padovano Gasparre Barzizza (1359-1431) che aprì un convitto privato, cui poi s’ispirò Guarino Guarini (1374-1460), letterato di Verona. Ma l’esperienza più riuscita fu quella di Vittorino da Feltre (1376-1446) che accoglieva nella sua scuola coloro che riteneva meritevoli, senza distinzioni di ceto. La casa “Zoiosa” (giocosa) si distingueva per la sua atmosfera più che per il culto delle arti, in perfetto stile umanistico e rinascimentale.
La ricerca di un metodo didattico efficace
Tra il quattrocento e il cinquecento aumentò il numero di precettori assoldati nelle corti principesche e si venne nello stesso tempo a porre la questione del metodo d’insegnamento, soprattutto nel nord dell’Europa. Era necessario un modello di scuola del definito e facilmente riproducibile. Importante fu l’esperienza delle scuole gestite dai Fratelli della Vita Comune, un’associazione di fedeli dei Paesi Bassi, I quali ci intrecciarono la cultura umanistica con un modello di organizzazione didattica basata sulla classe. L’intero corso di studio si fondava su otto classi sequenziali. Questo tipo d’insegnamento si espanse in tutt’Europa. Gli umanisti poi trasformarono questo modello in residenziale sull’esempio della casa “zoiosa” dove i maestri vivevano insieme agli allievi unendo lo sviluppo cognitivo a quello morale. Particolare attenzione era posta ai giochi che erano considerati attività educativa, al pari di tutte le altre attività, come il tempo libero.
L’invenzione della stampa
La generalizzazione della stampa a caratteri mobili e del libro “vade mecum”, cioè del libro maneggevole rese più semplice e valore la riproduzione di scritti e diede uno stimolo poderoso alla diffusione della cultura. Il libro del maestro, dove era riportata la lezione, cominciò a essere integrato alla lettura del testo.
La manifestazione degli affetti familiari
Si venne a determinare una maggiore affettività nei confronti della prole con conseguente investimento economico in istruzione. La lontananza fisica e affettiva che i genitori mantenevano nei secoli precedenti era sostanzialmente dovuta all’elevata mortalità infantile, affezionarsi alla prole voleva dire soffrirne per la perdita. Ma a mano a mano che cresceva l’affetto aumentava anche l’interesse dei genitori nel fornire ai figli gli strumenti per affrontare il mondo. L’aumento dei collegi e la loro diffusione sul territorio furono la conseguenza dell’aumento della domanda d’istruzione.

giovedì 1 novembre 2018

Il capitalismo:In economia il termine capitalismo può riferirsi genericamente a diverse accezioni di teorie e pratiche economiche, istituzionalizzate in Europa tra il XIV e il XV secolo, appartenenti alla storia del pensiero economico, che coinvolgono in particolar modo il diritto da parte di individui o gruppi di individui di comprare e vendere, in un mercato libero dal controllo statale, beni capitali e il lavoro, ovvero i fattori della produzione.
L'affermarsi dell'industria ha generato la possibilità di produrre una considerevole eccedenza di merci, creando così un sistema economico caratterizzato dalla continua espansione della produzione e da una crescente accumulazione della ricchezza, assai diverso dai sistemi produttivi tradizionali, i cui livelli di produzione erano prevalentemente statici. Il capitalismo, reso possibile dagli sviluppi tecnologici che avevano consentito la produzione industriale delle merci, a sua volta incentiva gli ulteriori sviluppi della tecnologia produttiva. L'incremento del progresso scientifico e delle sue applicazioni in chiave tecnologica genera un sistema produttivo la cui portata innovativa è infinitamente superiore a quella dei sistemi tradizionali. Un esempio particolarmente chiaro è fornito dallo sviluppo dei sistemi informatici, di giorno in giorno più maneggevoli, economici e potenti. Gli elaboratori, che negli anni '60 erano patrimonio unicamente di grossi centri di ricerca o importanti multinazionali e occupavano intere stanze, sono oggi sostituiti da normali personal computer.Come è noto, una tale rivoluzione produttiva ha avuto numerose ripercussioni su diverse dimensioni del vivere sociale. Ha incentivato il processo di urbanizzazione, con le conseguenze sociali a esso legate (ridotti spazi abitativi, famiglia mononucleare ecc.). Tutto ciò ha comportato una revisione delle istituzioni e dei rapporti sociali tra gli individui.